Il racconto che precede è frutto di fantasia e mai potrebbero verificarsi, a mio parere, circostanze e discorsi del tipo raccontato. Quantunque qualcuno riconosca fatti, luoghi e personaggi dovrà ritenere tale eventualità figlia del solo caso. Grazie.
Fatti reali e/o leggende paesane sono quelli che
seguono, alcuni, per la loro ormai ampia
distanza temporale mancano fortunatamente di rischi di saperne troppo, sempre
per me e per voi, e che servono ad introdurre la periodica ricetta culinaria.
Fritto
di rane ed anguille.
Strano destino ha accomunato queste due specie
acquatiche. Una comunanza non unica. In comune la natura, l’evoluzione, li ha
dotati di una vita all’insegna della metamorfosi.
La rana, anfibio per eccellenza, nasce in acqua e
diviene adulta, capace di vivere all’aria assumendo svariate forme fisiche.
L’anguilla ha metamorfosi ancora più complesse
nella sua crescita tanto da divenire quasi - mi si perdoni l’azzardo
dell’affabulatore - psicologiche nel nascere nel Mar dei Sargassi e qui farvi
ritorno da adulta, anche dopo un ventennio vissuto nelle nostre acque dolci,
per procreare e morire.
Orbene le due specie hanno un’altra comunanza:
entrambe sono gradite al palato della nostra specie.
Io, che non ho ancora mezzo secolo, ricordo di una
femmina (1) che vendeva le rane per strada strappando le loro capozzelle con un
morso e scuoiando la pelle con uno strappo. Era velocissima e, devo dire, lo
era anche nell’afferrare le monete.
Ricordo che da ogni nostro pescivendolo, o al
mercato quando quello del pesce si svolgeva ancora sotto il porticato dell’ex
piazza Principe di Napoli, erano esposte pigre anguille in scatolari vasche
d’acqua.
Ma la cottura in frittura dei due animali,
nonostante fossero un cibo atavico per le nostre genti di pianura, di corsi
d’acqua ristagnanti, veloci come il Clanio o successivamente irreggimentati nei
Regi Lagni borbonici, non era una cosa diffusa in famiglia, o almeno in quelle
meno abbienti, visto il costo dell’olio o dei grassi utilizzabili.
Si friggeva ma lo si faceva nelle cucine delle
osterie, delle cantine, dove la frequenza degli avventori rendeva conveniente
tenere alla giusta temperatura, dai 160 ai 180 gradi, i grassi.
Fra gli abituali avventori locali di queste cantine
vi erano i guappi, i camorristi che potevano permettersi di frequentarle tutti
i giorni ed eleggerle quasi a loro ufficio privato dove potevano ricevere e
lanciare segnali e messaggi per la corretta gestione della mala res e dove
poteva capitare di essere raggiunti dal fuoco di qualche esordiente del settore.
Prima della camorra eletta a sistema dei nostri
giorni, prima dell’alta camorra dei colletti bianchi, c’era una camorra rurale,
autarchica e organizzata a livello feudale.
I suoi esponenti, compresi quelli della svolta
cutoliana, fino all’ultimo ommo ‘e panza meroliano, erano personaggi pubblicamente riveriti e
onnipresenti nella vita paesana.
Questi mangiavano e bevevano in osteria e spesso
ordinavano il fritto di anguille e rane.
La ricetta è semplicissima. Dopo aver eviscerato le
anguille - operazione delle più complesse visto le loro viscidità e coriaceità
nel morire - e spellate le rane – operazione delle più rare oggigiorno visto
che si trovano già pulite e congelate - vanno infarinate, gettate in immersione nell’ olio caldo e
adagiate su carta assorbente a fine cottura per eliminare l’olio superfluo.
Stop.
Il piatto va servito caldo ed accompagnato con un
vinello bianco freddissimo. Consiglierei un asprinio aversano o meglio la sua
versione angioina di spumante.
(1) l'anziana donna ho scoperto, da adulto, essere stata la nonna di Bruno Buttone, condannato per camorra.
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