giovedì 31 ottobre 2013

La rana in tempura.


Potrei comunicare della rana coinvolgendoti con effetti speciali: ricetta-epilogo rana, ma anche della pettola: ricetta-epilogo pettola
Ed è quello che sto facendo. 
Tuttavia mi interessa raccontarti una breve storia vera. Questa iniziò già in maniera inusuale quando, per un documentario sulla rana come cibo di una tv giapponese, riuscimmo a trovarne una ed una sola. Il pescivendolo mi portò di chiacchiere per del tempo sulla disponibilità di qualche chilo di rane vive, garanzia di freschezza ed autoctonia, fino al giorno delle riprese quando, sempre scusandosi di non averle trovate, ricordò di averne una, perduta e rintanatasi fra la cella e la vasca. 
La vittima sacrificale c'era.
Non so quale funzionario della soprintendenza alla Reggia, dove la troupe nipponica girava un documentario sul monumento, li indirizzò da noi per avere testimonianza di come si puliscano e si cucinino le rane a Marcianise. 
Intanto lo ringrazio perché potemmo farci un'idea concreta delle impassibili capacità di sintesi e di organizzazione dei giapps, e perché godemmo dei loro complimenti dopo che ebbero provato alcuni nostri piatti, tra cui quell'unica rana fritta. 
Ora, mio caro, io non sono un gran soppressore e pulitore di rane: occorreva l'opera della suocera visto il rischio di un brutto risultato provandoci con una sola rana. 
L'intervento di chi risultava ai loro occhi, una volta che la graziosa interprete li ebbe informati, come la titolata addetta alla mattanza attizzò ancor di più l'interesse dei tre. La troupe, dotata di diafani guanti tipo chirurgo, aveva circondato il tavolo con cavalletti, luci e telecamere e, finanche, un microfonone di quelli con la pelliccia.

I veloci gesti di 'Ngelina, la suocera, al ciak risultarono esperti e precisi: decapitazione e spellamento, vivisezione e distacco delle viscere con particolare attenzione alla famigerata vescichetta del fiele. 
Ripresero tutto con un interesse che nemmeno Linneo ebbe per la sua classificazione. 
Loro ripresero tutto, loro, e noi, dopo i complimenti, gli arigatò di rito ed i bellissimi tenugui che ci regalarono dedicandoceli, ci rendemmo conto di non aver fatto nemmeno una foto. 
Strùnzi.
  








Il tenugui regalatomi con tanto di dedica, certificazioni sul prodotto e precisissime istruzioni d'uso.
Preciso, per tenermi in tema, che quello di Maria ha grafica diversa ed è rosso. 

mercoledì 30 ottobre 2013

ricetta epilogo da OUTDOOR 06 'a fraveca II




Come introdurre ora la periodica ricetta?
Beh! Sono alquanto scafato nell’osservare e ricordare le cose del mio piccolo mondo paesano, da non poter fare a meno di riportare una consuetudine quasi estinta come la spaventata
Il pranzo della spaventata era uso offrirlo allorquando si finiva di gettare l’ultimo solaio di una fràveca per civile abitazione, allorquando si usava anche innalzare una patriottica bandiera sulla copertura – a dimostrare il successo degli sforzi fatti dalla famiglia che costruiva e, un po’, per sollevare l’invidia dei vicini ancora a casa a pesòne.
Erano le donne di casa a preparare quest’ abboffata anche se a parteciparvi erano i soli uomini della famiglia e gli operai della squadra realizzatrice – ospite riverito e ben servito il masto fràvecatore a capo di questa.
Così in un clima dapprima di timidezza e poi, con il mescere del vino, sempre più festoso e, per l’assenza delle femmène, sempre più disinibito venivano servite varie rustiche portate tra le quali oltre agli spaghetti, per cui la spaventata sarebbe la storpiatura di spaghettata, erano spesso presenti le pettole e fagioli.


Come spesso accade quando si affronta la locale tipicità di un piatto – ma succede anche in altre applicazioni umane, soprattutto quando gli intenti classificatori sono così forti da far perdere di vista la portata di aspetti più particolari…n'est que spéculation intellectuelle, citoyen - quando si parla delle pettole come di un piatto tipico marcianisano (2) sfuggono le innumerevoli e svariate maniere di prepararlo, tipiche, questa volta sì, delle singole famiglie. La ragione di questa variabilità sta nell’essere le pettole un piatto in cui affluivano, a seconda della disponibilità stagionale o finanziaria, diversi ingredienti e diversi erano i modi di prepararlo.
A cominciare dalla scelta, o meglio disponibilità, dei fagioli: chi li vuole bianchi, chi rossi e chi entrambi - passando per l’aggiunta o meno del sugo di pomidoro, stabilendo che siano più gustose aggiungendo alla farina d’impasto della crusca… - avremo per ogni clan marcianisano una diversa composizione delle pettole.
Probabilmente non esiste nella tradizione mediterranea un piatto più ancestrale e vernacolare di questa pasta, semplice impasto di farina ed acqua mediamente essiccata e tagliata secondo striscie variamente larghe – le pappardelle ne sono la versione secca ed ingentilita.

Le nonne delle nostre nonne, che non furono certo fini e metodiche sfogline emilianromagnole, seppero fare della grossolana consistenza di questa sfoglia, spesso messa ad essiccare sul piano dei loro altissimi lettoni, la base dei più svariati e rustici e colesterolici condimenti.
Fingendo di non preoccuparsi delle mine di colesterolo con cui bombardereste il vostro corpo, la preparazione fondamentale, comune a tutte le pettole, è il soffritto di base: un trionfo di grassi e carni suine che raggiunge l’apice con l’aggiunta della salsiccia di polmone – essiccata e successivamente ammorbidita dal sugo la ricordo una delizia – e della noglia (3). Entrambi quest’ insaccati, di carni di secondo e terzo taglio la prima  e di budella ed intestini la seconda dal nome misterioso, dimostrano che del porco non si getta nulla.
Il peperoncino e della buona cipolla, a me piace accompagnarvi anche dei dadini di carota e gambo di sedano ed un po’ d’aglio, sono gli altri ingredienti che formano il soffritto al quale si aggiungeranno i fagioli scelti – se cotti nella pignatta al fuoco del camino si trasmetteranno al piatto piacevoli sentori di fumo – dei quali consiglio di passare al mixer una parte.
Saltate le pettole nel sugo preparato, vi potrete aggiungere un po’ di sugo di pomodoro e, lo consiglio fortemente, dei pomidori tagliuzzati che risulteranno appena scottati allorquando impiatterete.
Il vino consigliato? Beh! Stavolta lascio a voi la scelta ma, mi raccomando, non lesinate sui tannini.



(2) il piatto è tipico soprattutto del basso Lazio.
(3) con lo stesso nome è conosciuta, oltre che nelle province campane, anche in Molise


ricetta epilogo da OUTDOOR 04 'a fraveca




Il racconto che precede è frutto di fantasia e mai potrebbero verificarsi, a mio parere, circostanze e discorsi del tipo raccontato. Quantunque qualcuno riconosca fatti, luoghi e personaggi dovrà ritenere tale eventualità figlia del solo caso. Grazie.
Fatti reali e/o leggende paesane sono quelli che seguono, alcuni,  per la loro ormai ampia distanza temporale mancano fortunatamente di rischi di saperne troppo, sempre per me e per voi, e che servono ad introdurre la periodica ricetta culinaria.


Fritto di rane ed anguille.
Strano destino ha accomunato queste due specie acquatiche. Una comunanza non unica. In comune la natura, l’evoluzione, li ha dotati di una vita all’insegna della metamorfosi.
La rana, anfibio per eccellenza, nasce in acqua e diviene adulta, capace di vivere all’aria assumendo svariate forme fisiche.
L’anguilla ha metamorfosi ancora più complesse nella sua crescita tanto da divenire quasi - mi si perdoni l’azzardo dell’affabulatore - psicologiche nel nascere nel Mar dei Sargassi e qui farvi ritorno da adulta, anche dopo un ventennio vissuto nelle nostre acque dolci, per procreare e morire.
Orbene le due specie hanno un’altra comunanza: entrambe sono gradite al palato della nostra specie.
Io, che non ho ancora mezzo secolo, ricordo di una femmina (1) che vendeva le rane per strada strappando le loro capozzelle con un morso e scuoiando la pelle con uno strappo. Era velocissima e, devo dire, lo era anche nell’afferrare le monete.
Ricordo che da ogni nostro pescivendolo, o al mercato quando quello del pesce si svolgeva ancora sotto il porticato dell’ex piazza Principe di Napoli, erano esposte pigre anguille in scatolari vasche d’acqua.
Ma la cottura in frittura dei due animali, nonostante fossero un cibo atavico per le nostre genti di pianura, di corsi d’acqua ristagnanti, veloci come il Clanio o successivamente irreggimentati nei Regi Lagni borbonici, non era una cosa diffusa in famiglia, o almeno in quelle meno abbienti, visto il costo dell’olio o dei grassi utilizzabili.
Si friggeva ma lo si faceva nelle cucine delle osterie, delle cantine, dove la frequenza degli avventori rendeva conveniente tenere alla giusta temperatura, dai 160 ai 180 gradi, i grassi.
Fra gli abituali avventori locali di queste cantine vi erano i guappi, i camorristi che potevano permettersi di frequentarle tutti i giorni ed eleggerle quasi a loro ufficio privato dove potevano ricevere e lanciare segnali e messaggi per la corretta gestione della mala res e dove poteva capitare di essere raggiunti dal fuoco di qualche esordiente del settore.
Prima della camorra eletta a sistema dei nostri giorni, prima dell’alta camorra dei colletti bianchi, c’era una camorra rurale, autarchica e organizzata a livello feudale.
I suoi esponenti, compresi quelli della svolta cutoliana, fino all’ultimo ommo ‘e panza meroliano,  erano personaggi pubblicamente riveriti e onnipresenti nella vita paesana.
Questi mangiavano e bevevano in osteria e spesso ordinavano il fritto di anguille e rane.
La ricetta è semplicissima. Dopo aver eviscerato le anguille - operazione delle più complesse visto le loro viscidità e coriaceità nel morire - e spellate le rane – operazione delle più rare oggigiorno visto che si trovano già pulite e congelate - vanno infarinate,  gettate in immersione nell’ olio caldo e adagiate su carta assorbente a fine cottura per eliminare l’olio superfluo.
Stop.

Il piatto va servito caldo ed accompagnato con un vinello bianco freddissimo. Consiglierei un asprinio aversano o meglio la sua versione angioina di spumante.


(1) l'anziana donna ho scoperto, da adulto, essere stata la nonna di Bruno Buttone, condannato per camorra.








giovedì 17 ottobre 2013

OUTDOOR 02 Zen tzigano


OUTDOOR



02
Zen tzigano

Ti sei fatto svegliare nuovamente stamani. Di nuovo non ce l’hai fatta da solo, instupidito e contrariato assisti agli ultimi, autonomi preparativi dei figli. Nel completo pantalaccio, che ti fa da pigiama, e giaccone techno, che copre tutto, ti infili nel traffico per accompagnarli a scuola.
Smadonni per i lenti mezzi della raccolta dei rifiuti, chè a quest'ora si fa, a quest'ora, e pregusti il caffè di Vittorio e la prima sigaretta con Luca Bottura.
Torni a casa, alla tua moka da sei ed alla tua lettura-fumata in seduta. Tra messa a punto dei pensieri e focalizzazione degli impegni ti ricordi che hai detto a Gianni Ja Voceira che sarebbe venuto con te e Rennie a correre stamane.
E’ da quando siete fermi con la lotta che sente la necessità di muoversi, di allenarsi e, da qualche giorno, sembra essersi adattato ai tuoi incredibili percorsi, anzi ne sta diventando un sostenitore.
La verità è che siete simili, vi piace ricercare il bello nel brutto, dare senso all’insensato, raschiare la patina d’immondizia per mettere a nudo l’uomo.
Gia’ è già giù. Si va, cagna in testa, verso ovest.
Il ring verde per ora è solo un muro che sembra  fatto apposta per addossarvi cumuli di rifiuti. Rifiuti di ogni tipo.
Ti tocca di nuovo ironizzare sul sesto Mitridate, che a piccole dosi si assuefaceva ai veleni, per spronare il titubante Voceira ad accettare la tua teoria sull’aumento delle proprie autodifese.
Tuttavia qualche dubbio sulle tue intuizioni medicoscientifiche ti prende quando vedi la bianca e rigogliosa schiuma accompagnare lenta le ex regie acque. E i dubbi aumentano quando un indescrivibile e spesso fetore ti attanaglia la trachea, spalancata, questa, nel compito di immettere aria al tuo corpo che corre.
Dallo sterrato che costeggia il lagno, tracciato dalla  peregrinazione di centinaia di pecore diossiniche, passate a quello sottostante la sopraelevata del Tav che scende da nord e vira bruscamente verso est.



Qui esiste un ganglio antropico territoriale, un nodo multiplo di strade più o meno asfaltate, di ferrovie più o meno veloci, una fogna a cielo aperto più o meno storica.
Qui coesistono una chiesa con frontone ed un cimitero di colerosi con cipressi, una collina di rifiuti e tante piccole dune artificiali, un impianto di depurazione della fogna a cielo aperto, un maneggio per la monta western, un serbatoio idrico su pilone, una vasca per la macerazione della canapa, degli asfittici terreni semi abbandonati ed un accampamento di uomini nomadi.



Il campo è preannunciato da una scritta in giallo acido sul cemento di una pila della linea ferrata  che travalica quella a raso. 


CI. VIENE.
IN. CUESTO. CAMPO 
MALAMNTE. NONE 
MA. NANCE. BUONO

Ti impegni a decifrarla aggiungendo le acca ed aiutandoti con i punti che l’autore, forse preoccupato di essere intellegibile, ha posto tra una parola e l’altra.
Chi viene in questo campo non è malamente, ma neanche buono.
Ci pensi, effettivamente sembra criptica. Ci ripensi, tu stai entrando al campo. Gli zingari, per voi stanziali,  non sono buoni come non sono buoni quelli che li avvicinano. Per loro lo stanziale che osa avvicinarli non è malamente ma, per voi, non è buono. Sono le vostre culture a confronto, è l’individualismo di chi arriva e quello di chi riceve fusi in una media zen.
Man mano che vi avvicinate aumentano le carcasse d’auto, quello che ne rimane dopo le asportazioni e le fiamme. Intorno ad una di queste vi sono due donne ed un uomo. Guardano sbigottiti alla vostra apparizione, sono preoccupati soprattutto di Rennie, ma fanno finta di nulla e riabbassano gli sguardi di corvo verso il loro lavoro. Solo lui risponde con un mugugno al vostro salve.
Delle due donne quella più giovane è gravida, un pancione le gonfia la lunga ed ampia gonna. Hanno un vecchio camioncino, che ricorda un chair a banc, dietro al quale trafficano con quel che resta di un intero motore ancora attaccato ai supporti.
Finalmente afferrate quello che stanno facendo, cercano di sollevare ‘sto motore bruciacchiato sullo sciaraballa. Non mancano di intuito ed esperienza cinematici tanto da tentare di metterlo in verticale per poterlo ribaltare, poi, sul camioncino. Ma il peso è eccessivo.
Occorre proporsi, loro non ve lo chiederebbero mai di essere aiutati. Non sono abituati alla solidarietà.
Detto fatto, l’aggancio di Ja è notevole, tutti voi altri lo notate con un sollievo e con un sollievo guardate il motore ribaltarsi perfettamente sul pianale con un tonfo di lamiera ed un leggero impennamento del mezzo.
Le parole, dopo, sono poche. Qualche domanda vostra per ottenere vaghe bugie e certi depistamenti. Una domanda loro, per confermare quella visione zen :  ma voi non siete italiani, eh?.


disegno di Franco Oliviero e Stefano Marino
foto di Gianni Ja Voceira
Trentola dic. 2010