giovedì 11 maggio 2017

calvario

non l'ho mai detto, ma la mia perplessità maggiore era su che fine facessero i pastori dopo l'avvento.
perché col climax rappresentativo tenero e dal calore casalingo del natale ed epifania si giungesse alla tragedia mi era inspiegabile, restavo allibito e non capivo i bambini coi parrucconi con spine e corone di lampadinelle, le bambine con veli d'un blu cosmico con cuori e spade.
diveniva tutto miseramente drammatico e triste.
meno male che mammà, la nanonna in verità, ci faceva interpretare i monacielli con saio a me e mio fratello. ricordo allegria ed una massa di bambini monacielli su di un carro trainato da un trattore, un po' come quando poco dopo si andava con papà ed i cappelli garibaldini alla sfilata del primo maggio.
il partecipare a due rappresentazioni ci esonerava dal parruccone di cristo, dai suoi vestiti in raso di colori rosso sangue e celeste napoli e nastrini dorati. ci toccava solo assisterla la processione.
solo una volta toccò a lucia, forse perché non faceva il monaciello: fece la madonna addolorata. ebbe il suo vestito cosmico con stelle e fili dorati, passato già su qualche cugina, ed io ebbi la possibilità di toccare e smontare una pesante e pungente corona in latta con lampadinelle da un watt collegate tra loro da un filo e a far da altro polo la latta stessa.
alla mia piccola sorella angustiarono non solo i pesi del calvario e della corona, ma anche quello della batteria di dodici volt grossa come una doppia scatola di sardine.
poi da grande seppi della processione dei vattienti di nocera terinese e capii tutto.

jesuisismo

- ma siamo ancora nel postmodernismo o la nostra epoca come cazzo si chiama?
- jesuisismo, la nostra è l'epoca del jesuisismo.
dell'io, del sé che partecipa allo sconcerto di tutti restando com'è, dov'è.
è dire so quel che sappiamo tutti, so quel che è stato, sono io stesso quel che è stato.